mercoledì 20 ottobre 2010

Guatemala, con la voce del cuore...

Ci sono giorni che passano lenti, vischiosi, ognuno uguale all’altro con quella sensazione addosso di star vivendo in un acquario, spesso questi giorni da eccezione si trasformano in quotidianità, credo sia il nostro male, il male del nord del mondo. Torni a casa la sera, stanco da una giornata in ufficio che alla tua vita non ha aggiunto altro che mal di schiena, vedi un amico, bevi una birra e bestemmi contro l’apatia che ti attraversa e l’impossibilità di uscirne, rincasi quasi più leggero perché almeno ne hai parlato, dormi qualche ora e la sveglia suona ancora, sempre uguale, “Struggle for pleasure” di Wim Mertens per sentirti vivo, ti alzi sperando di aprire la finestra e trovarti altrove ma quel altrove, li, non l’hai mai trovato. Fai colazione, una doccia, scegli la camicia e inizi a indossare l’abito, questa evoluta forma di schiavitù la chiamano “dress code”, prendi la cravatta e la passi intorno al collo, tutto intorno a te prende una tinta differente, rosso, verde, azzurro, poi immagini lontane, non nel tempo, ma nello spazio, quella lontananza che ti fa sentire inizialmente fuori dal mondo, almeno fuori dal mondo che hai sempre creduto essere l’unico possibile. Alberi, selva e terra incontaminata sporca del solo sangue di chi l’ha desiderata così tanto da lottare dei lustri, da sacrificare la propria vita per ottenerla e donarla ai figli, di chi quella terra spesso l’aveva già per parola di un padre che non poteva dimostrarlo o non era abbastanza protetto per farlo da chi questo dovere l'aveva costituzionalmente. Longitudini, tra l'afoso Petén e le verdi montagne dell'Alta Verapaz, in cui da quasi 30 anni si consuma un'immonda tragedia dimenticata dal mondo "civile". Migliaia di persone, "campesinos" di origine Maya (ndr. contadini), sono state private di un diritto naturale e imprescindibile per uno sviluppo accettabile del tessuto socio-economico, la terra. La promessa di una riforma agraria è stata calpestata più e più volte da multinazionali corruttrici di governi spinti a ignorare i diritti umani, spesso si è ricorso alla criminalità locale per compiere violenze a scopo intimidatorio. Si è sterminato villaggi che si opponevano a lasciare i campi per far spazio alle monocolture, si è ucciso i rappresentanti delle associazioni d’opposizione, si è minato lo sviluppo economico autonomo imponendo, in maniera subdola, l'utilizzo del transgenico nelle coltivazioni di mais. Ti svegli in quelle terre, sudato e perennemente stanco dal caldo atroce che ti affligge e il solo fatto di guardarti intorno ti fa intuire che le tue priorità, li, non hanno ne possono avere rilievo. Lì, un “marero” valuta la tua vita 10 dollari.
Lì tutto ciò che conta è tornare a casa la sera con un pugno di riso, una dose di massa di mais e qualche fagiolo, non ne avresti bisogno se avessi un piccolo podere, ma non l’hai da tempo e i padroni ti pagano una miseria al mese per coltivare la terra, sei fortunato ad averlo quel misero lavoro, faresti bene a non lamentarti, a non rivendicare nulla, ieri Pablo è stato ucciso mentre, machete in mano, urlava “tierra, tortillas y libertad”.
Una certezza storica è che la vita si è sempre evoluta principalmente sulle rive dei grandi fiumi, ma il Nord ha bisogno di elettricità così vai in Guatemala e crei 3 dighe sull’Usumacinta, al confine col Messico. Una diga necessita di un bacino così allaghi ettari ed ettari di territorio e poco importa se la scelta, per chi in quel territorio ci vive da sempre sia limitata a morire o scappare, poco importa se in quel territorio s’è sviluppata per migliaia di anni una delle civiltà più gloriose della storia umana, i Maya.
La tua mente fatica a crederci, pensi di aver visto abbastanza, ma scopri che nulla è abbastanza. Ti chiedi come, chi, per cosa si possano compiere tali gesti. Ti chiedi come si possa ritenere una diga più importante della vita e della storia di un intero popolo. Queste domande non hanno nemmeno il tempo di esistere, quei popoli, sotto lauta ricompensa, non sono mai esistiti. L’arma è sempre la stessa, l’ignoranza di massa. Che senso ha dare la cultura a qualcuno che la potrà usare un giorno per rivendicare i propri diritti? Così nei villaggi le scuole vanno avanti grazie a professori che non percepiscono stipendio da mesi, spesso si accontentano di essere “mantenuti” come ricompensa per un lavoro che è diventato una missione. I bambini di contro hanno solo due scelte e a volte non ne hanno affatto, aiutare nei campi per guadagnare qualcosa per i fratelli più piccoli o andare a scuola per crearsi un futuro differente, questa scelta però è minata da un gap conoscitivo, “un futuro differente” non riesci a immaginarlo se non hai mai varcato il confine del tuo villaggio, così la scelta più facile diventa la più pericolosa.
“Tiempo de Solidaridad”, è il motto del Presidente del Guatemala Alvaro Colom. E’ importante prendere coscienza del senso di questo messaggio. Ti aggiri per terre sperdute, tra vette assolate e fitte foreste e quel motto ti perseguita ovunque abbinato ai colori dei punti cardinali Maya. Siamo con voi, sembra dire ai campesinos. Peccato che poi coi campesinos si trovino solo associazioni umanitarie internazionali. Lo stato latita e anche il “patto base” siglato coi nullatenenti, ovvero il tetto minimo, è spesso un miraggio.
Così ti rendi conto del bene profondo che l’esser li genera, le nostre magliette portavano in giro un messaggio molto più pratico “Libertad es partecipaciòn - AMKA onlus ®”. Crediamo che questo sia ciò che un volontario debba creare in quella terra, la partecipazione. C’è un filo sottilissimo che collega il libero e l’oppresso, il suo livello di percezione della realtà. Essa, infatti, si acquisisce tramite l’interazione diretta con la società, se l’oppresso coglie il senso di questo legame affronta, di fatto, il primo passo verso la liberazione.
Così tutto ciò che occorre fare è instaurare questa consapevolezza tramite dei progetti condivisi e compartecipati. “Io non dico la mia perché farlo mi ha sempre provocato dolore”, mi disse un giorno un campesino dopo una riunione a Doce Aquilas, allora mi fu chiaro di cosa quella gente aveva bisogno ovvero sentirsi determinante per il processo, essere prima testa che progetta, poi mano che edifica e infine corpo e cuore che godono del risultato e lo difendono. Si deve sempre partire da una domanda concreta, cosa renderebbe la vita migliore a te e ai tuoi compagni? Acqua corrente e latrine sono state le risposte più comuni. Progettiamo insieme come procurarvele, è stata sempre la nostra risposta. L’affamato cui è regalato un pezzo di pane busserà alla tua porta ogni giorno sperando che il “miracolo” si riproponga, quello con cui si progetta un forno e si condivide la ricetta non avrà più bisogno di te e potrà beneficiarne con tutta la sua comunità. Il seme che va donato è quello della cultura, della curiosità e della speranza, il resto va da se.
Finisco il nodo e stringo la cravatta…la casa dei giovani nella comunità di Nuevo Horizonte (Petèn) e il suo murales “Ser jovenes y no ser revoluciònarios es una contradiccion biologica”…allento un po’ il nodo, respiro aria di libertà, devo sbrigarmi, in ufficio mi aspettano…fino alla prossima missione!

Siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo: è la qualità più bella di un rivoluzionario.” -Ernesto Che Guevara-